Campi di concentramento e comuni di internamento “libero”:
il caso delle Marche (1940-1944)

di Giuseppe Morgese

esistono ancora segmenti di recinti con fili spinati,
spesso in posti isolati e poco accessibili,
e si ignora che esistano e che storia li accompagni.
C’è un imperativo morale e didattico nel ricostruire
queste storie e riportarle all’attualità.
Quei luoghi, in qualche caso persino ville riadattate,
non erano luoghi di ‘villeggiatura’,
potevano essere l’anticamera della morte;
e nell’Italia di oggi l’offesa alla dignità
e la limitazione della libertà
non sono affatto lontani dall’orizzonte;
si comincia sempre da chi è meno difeso.

Riccardo Di Segni, Prefazione a
G. Morgese-D. Duca,
Una regione e i suoi “campi”.
Tra concentramento, internamento,
liberazione, deportazione e supplizio (1940-1944),
Ikona, Venezia 2014.

Siamo nel 1947 e dalla fine della guerra, le strutture che durante il Regime erano state utilizzate per segregare persone innocenti, militari e antifascisti, vennero riadattate per ospitare i profughi o gli sfollati che, a causa dei bombardamenti, non disponevano più di alcun riparo o di una casa. Ebbene è il 18 dicembre 1947 quando il Ministero dell’Interno emana una disposizione con la quale impone il cambio di denominazione di quei complessi: deve sparire dalla carta intestata il termine “campo di concentramento” per lasciare il posto a quello di “Centro di raccolta per profughi stranieri”. Il termine “campo di concentramento” è quello rinvenuto nei documenti presenti negli Archivi di Stato e tale destinazione d’uso figura esplicitata anche nei contratti di affitto che vennero stipulati e sottoscritti intorno al 30 maggio del 1940, tra le Questure ed i proprietari delle ville che andranno ad ospitare di lì a poco una moltitudine di uomini, donne e bambini.

Per tornare a quella disposizione che, all’apparenza sembrerebbe di normale amministrazione, in realtà rappresenterà uno dei pilastri su cui verrà costruita una nuova memoria di quei luoghi, più rassicurante di quella che invece avrebbe evocato. Con riferimento alla nostra realtà marchigiana, non la sola come territorio ad essere prescelta per l’internamento, in caso di conflitto, di prigionieri di guerra, di stranieri nemici, deportati da zone occupate (ribelli sloveni) e di oppositori al regime (antifascisti italiani), è determinante una nota emanata dal Ministero della Guerra l’8 maggio del 1936 con la quale vennero stabiliti i criteri per la costruzione dei campi di concentramento, indicando «le province di Perugia, Macerata, Ascoli, Aquila e Avellino come idonee ad impiantare, almeno per il momento, tre campi per i sospetti politici già confinati, i sospetti politici “da fermare», “gli elementi” di accertata attività informativa militare.

Le località, secondo tale disciplinare, dovevano rispondere ai determinati requisiti:
• trattarsi di zona militarmente poco importante;
• situata lontana da grandi vie di comunicazione;
• con scarsa concentrazione demografica;
• dalla limitata politicizzazione degli abitanti.

Inoltre ciascun campo avrebbe dovuto accogliere non più di 1000/1500 internati. L’internamento veniva attuato mediante due soluzioni: in campi di concentramento (costrizione di individui in appositi complessi o in strutture con baraccamenti); in comuni di internamento cosiddetto “libero” (obbligo di residenza in località ubicate in piccoli centri in zone più periferiche, disagiate della penisola). Il ricorso all’internamento, soprattutto come misura amministrativa sottratta al giudizio della magistratura e quindi più facilmente adottabile, permise alle autorità di agire contro tutti coloro nei cui confronti non sussistevano sufficienti indizi e motivazioni per sottoporli ad un procedimento da celebrare innanzi ad un tribunale. Il presupposto per destinare una persona ad un campo era quello del “sospetto” di colpevolezza che prescindeva dall’accertamento di responsabilità penali. Infatti il testo unico di pubblica sicurezza del 1926, integrato nel 1931, istituendo il confino di polizia, confermò l’istituto dell’internamento quale provvedimento dall’immediata applicazione, senza necessità di essere giustificato.

Con queste premesse e con un apparato normativo R. D. 1415 dell’8 luglio 1938e regolamentare approntato nel tempo (fin dal 1925), il Regime poteva disporre alla vigilia dell’entrata in guerra, il 10 giugno del 1940, di un sistema di internamento strutturato e gestito a livello centrale dal Ministero dell’Interno e dal Ministero della Guerra, avvalendosi di censimenti e schedature di tutti i soggetti nei cui confronti poteva scattare la misura dell’internamento. Molto generiche e soprattutto discrezionali e assolutamente arbitrarie le motivazioni per le quali si poteva finire internati in un campo. Interessanti e sconcertanti allo stesso tempo: si andava dal “politicamente pericoloso, è stato confinato tre volte” a “è il più noto e facoltoso giudeo di Ancona”; “ebreo sospetto politicamente”; “ebreo, dirigente socialista, capace di avversare ogni iniziativa del regime”; “ebreo antifascista e quindi nocivo nell’attuale momento”; “assoluta mancanza di spirito di collaborazione e di sentimenti di amor patrio”; “discorsi antifascisti ”; “mantiene contatti con noti sovversivi e conserva le sue antiche idee politiche”; “ebreo pericoloso in rapporto al momento attuale”; “compie azioni contrarie all’interesse nazionale”; “ebreo, manifesta forte avversione per la Germania e ingiuria Hitler e il Duce”; “ebreo capace di propaganda disfattista”; “irrequieto per i provvedimenti razziali si rende sospetto di propaganda contraria al regime”; “cosa si dovrebbe dire di Mussolini, che è andato a fare il maggiordomo a Monaco? ”; “ebreo esprime dove può sentimenti acidi contro tutti e contro tutto del fascismo”; “assieme ad altri minorenni manteneva i contatti tra i ribelli internati e i loro famigliari ”; “canta con un amico: “ce ne freghiamo delle camicie nere…”; “gli intimano di uscire da un locale pubblico ”perché gli ebrei non sono graditi” e lui risponde “il prossimo anno gli inglesi vogheranno in Ancona”; ”rifiuta di chiudere il negozio durante una manifestazione antiebraica organizzata dai fascisti”.

Nelle Marche vennero istituiti poco prima dell’inizio del secondo conflitto mondiale e nel corso dello stesso, sette campi di cui tre di genere riservato alle sole donne (Pollenza-Treia-Petriolo) e precisamente:
• nel Palazzo Bandini-Giustiniani, annesso all’abbadia di Fiastra di Urbisaglia (MC), di proprietà privata, capienza 200 persone. Emblematica, a questo proposito, la frase tratta da una lettera che un internato scrisse nel 1940 ai familiari:«il tutto è recintato da un muro, che costituisce il confine del nostro mondo». Letta asetticamente, con la mente, ci rimanda a esperienze vissute in un campo di concentramento nazista e invece si tratta di un’esperienza vissuta in un campo tutto “nostrano”;
• a Villa “La Quiete” (detta anche Villa Spada) aTreia (MC), di proprietà privata, capienza 110 persone;
• a Villa Lauri, sita in località Santa Lucia a Pollenza (MC), di proprietà privata, capienza 140 persone;
• a Villa Savini (detta “La Castelletta”) a Petriolo (MC), di proprietà privata, capienza 42 persone;
• nel Collegio Gentile aFabriano (AN), di proprietà dell’Ordine di Nostra Signora della Misericordia, capienza 180 persone;
• nel Convento di Santa Croce, Sassoferrato (AN), di proprietà dei Monaci Eremiti Camaldolesi, capienza tra 100 e 150 persone;
• nella Colonia Marina estiva UNES (Unione Esercizi Elettrici), Senigallia, (la prima struttura che nacque e inaugurò la filosofia introdotta dall’ordine n. 5 del 30 novembre 1943 del Ministro della Repubblica di Salò, Buffarini Guidi: quella dell’istituzione specifica di campi provinciali per ebrei, anticamera prima del concentramento in un campo più grande di transito – quello di Fossoli a Carpi -e poi della deportazione in Germania). All’interno dei campi bisognava osservare i seguenti obblighi:
• non è consentito agli internati di tenere presso di loro passaporti o documenti equipollenti e documenti militari;
• gli internati non debbono possedere denaro a meno che non si tratti di piccole somme non eccedenti in nessun caso le cento lire; le eccedenze dovranno essere depositate presso banche o uffici postali su libretti nominativi che saranno conservati dal direttore del campo di concentramento o in mancanza dal Podestà. Qualora gli internati abbiano necessità di effettuare prelevamenti, dovranno chiedere di volta in volta l’autorizzazione al direttore del campo di concentramento o in mancanza al Podestà, il quale, se ritiene giustificata la richiesta, provvederà a far eseguire l’operazione tenendo presente che la somma da prelevare non deve mai superare quella consentita. Prelevamenti di somme superiori dovranno essere autorizzati dal Ministero;
• gli internati non possono tenere gioielli di valore rilevante né titoli; tanto i gioielli che i titoli dovranno essere depositati, a spese dell’interessato, in cassette di sicurezza presso la banca più vicina dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato, mentre il libretto di riconoscimento sarà conservato dal direttore del campo di concentramento ed in mancanza dal Podestà;
• gli internati non possono detenere armi o strumenti atti ad offendere;
• gli internati non debbono occuparsi di politica;
• agli internati può essere consentita in linea di massima soltanto la lettura di giornali italiani; per la lettura di giornali o libri in lingua straniera deve essere chiesta l’autorizzazione al Ministero;
• in un primo tempo dovrà essere corrisposto a tutti gli internati, senza distinzione di sorta, il sussidio giornaliero di lire 6,50, aumentato per gli internati nei comuni di lire 50 mensili; successivamente le Questure interessate dovranno chiedere alle Questure nelle cui giurisdizioni dimorava l’internato se questi sia in grado di mantenersi con mezzi propri provvedendo, in caso affermativo, a sospendere la corresponsione del sussidio;
• ai fini di una maggiore vigilanza le Questure nelle cui giurisdizioni dimorava l’internato provvederanno a fornire alle Questure interessate i precedenti delle persone internate sospette di spionaggio o ritenute comunque pericolose;
• la corrispondenza ed i pacchi di qualsiasi genere, sia in arrivo che in partenza, debbono essere revisionati o controllati, prima della consegna o della spedizione, dal Direttore del campo di concentramento o in mancanza dal Podestà o da un loro incaricato;
• gli internati non possono tenere apparecchi radio;
• le visite dei familiari agli internati sia nei campi di concentramento che nei comuni di internamento debbono essere autorizzate dal Ministero;
• la convivenza dei familiari con gli internati nei campi di concentramento non è consentita;
• la convivenza dei familiari con gli internati nei comuni d’internamento deve essere autorizzata dal Ministero; le relative pratiche debbono essere trasmesse al Ministero dalle Questure interessate debitamente istruite. Alle ville monumentali, vanno aggiunti gli opifici industriali dismessi o le aree appositamente individuate ed attrezzate, che invece accolsero i quattro campi di concentramento per prigionieri di guerra che erano dislocati a:
• Servigliano (AP), contraddistinto dal n. 59, la sua capacità arrivava fino a 3000 posti;
• Sforzacosta, contraddistinto dal n. 56, poteva accogliere fino a 8000 prigionieri;
• Monte Urano (FM), contraddistinto dal n. 70, disponendo fino a un massimo di 8000 posti
;
• Montelupone, contraddistinto dal n. 129, con una capienza di 150 posti;
e quello di Castelraimondo (MC), contraddistinto dal n. 93, che doveva essere allestito nel corso del 1943 se non fosse sopraggiunto l’armistizio. Il campo avrebbe avuto una capienza di 8000 posti.
Un diverso trattamento era riservato ai destinati ai cosiddetti comuni di “internamento libero”. Si trattava di isolamento e soggiorno coatto in un comune prestabilito di coloro che, sottoposti a controllo e a limitazione della libertà personale, erano però ritenuti meno pericolosi rispetto ad altri oppositori del regime.

Persone comuni, semplici cittadini, con o senza ruoli sociali o politici di rilievo, vennero centrifugate dai venti di guerra e da provvedimenti assurdi e proiettati in universi sconosciuti: l’odissea della cattura, lo spaesamento provato in prima persona quando si veniva coercitivamente condotti in questi non-luoghi, lo “strappo” dagli affetti, il sentirsi tra “color che son sospesi” con tutto il dramma dell’ansia per il futuro, le condizioni materiali quotidiane, gli stenti, le malattie, le umiliazioni morali, l’isolamento dal mondo esterno, e quella condizione particolarmente deprimente a livello mentale per gli internati, rappresentata dal fatto di subire una reclusione sprovvista non solo di una colpa che la giustificasse, ma anche di un termine di “fine pena”. Ancora. Veder controllata tutta la posta, il sottostare ad estenuanti trafile burocratiche per ricevere le visite dei parenti, l’attendere a lungo l’autorizzazione per essere visitati da un medico, in caso di malattia.

I colpiti da tale provvedimento venivano diffidati alla stretta osservanza di una serie di prescrizioni:
1) divieto di allontanarsi dal perimetro dell’abitato del capoluogo del comune;
2) divieto di lasciare l’abitazione prima dell’alba e di rincasare dopo l’Ave Maria;
3) obbligo dell’autorizzazione preventiva del Podestà per consumare i pasti in esercizi e presso famiglie private del posto ed anche per riunirsi in mensa, ugualmente presso esercizi o famiglie private;
4) essere presente tutte le mattine alle ore 11 in Comune per l’appello giornaliero;
5) obbligo di vivere isolatamente, senza accompagnarsi comunque con persone;
6) obbligo di serbare buona condotta, non dar luogo a sospetti e mantenere contegno disciplinato;
7) divieto di tenere presso di sé passaporti e documenti equipollenti e documenti militari;
8) non è consentito all’internato di possedere somme di denaro oltre le lire 100. Così è vietato pure all’internato di tenere gioielli di rilevante valore, né titoli. Le somme, i gioielli ed i titoli, dovranno essere consegnati all’autorità locale di P.S.;
9) divieto di tenere armi e strumenti atti ad offendere;
10) divieto di occuparsi di politica;
11) divieto di leggere giornali e libri stranieri;
12) divieto di tenere apparecchi radio;
13) all’internato è vietato di ricevere visite di famigliari e di convivere con essi salva l’autorizzazione del Ministero dell’Interno;
14) l’internato che trasgredisce alle suddette prescrizioni sarà punito e trasferito in una colonia insulare. Nelle Marche furono individuati 102 comuni dove gli “ospiti” erano relegati o in case private o in strutture ad hoc come quelle di Serra San Quirico (Collegio convitto “Buon Gesù”), Montemarciano (Casa di ricovero per anziani G.B. Marotti), Camerino (Rocca del Borgia).

In particolare ben 23 località nella provincia di Macerata (Caldarola, Penna San Giovanni, Apiro, San Ginesio, Sant’Angelo in Pontano, Mogliano, Belforte del Chienti, Loro Piceno, Serravalle di Chienti, Urbisaglia, Sforzacosta, Fiastra, Ussita, San Severino Marche, Camerino, Tolentino, Treia, Appignano, Castelraimondo, Esanatoglia, Fiuminata, Sarnano, Visso), 22 in provincia di Ancona (Arcevia, Belvedere Ostrense, Castelbellino, Castelleone di Suasa, Castelplanio, Cerreto d’Esi, Cupramontana, Filottrano, Genga, Monteroberto, Monte San Vito, Morro d’Alba, Offagna, Ostra, Ostra Vetere, Polverigi, Ripe, Sassoferrato, Serra de’ Conti, Serra San Quirico, Staffolo, Osimo), 26 in provincia di Pesaro (Apecchio, Borgopace, Macerata Feltria, Mercatino Conca, Pennabilli, Piandimeleto, Piobbico, San Leo, Sant’Agata Feltria, Sant’Angelo in Vado, Sassocorvaro, Tavoleto, Colbordolo, Fano, Fermignano, Isola del Piano, Montebaroccio, Saltara, San Costanzo, Sant’Ippolito, Urbania. Prima della fine della guerra se ne aggiunsero altre cinque: Cagli, Cantiano, Mondavio, Pergola, Sant’Angelo in Lizzola) e 21 in Provincia di Ascoli (Offida, Montalto delle Marche, Montegallo, Castignano, Montedinove, Rotella, Force, Maltignano, Marino del Tronto, Venarotta, San Benedetto del Tronto, Acquasanta, Arquata del Tronto; nell’attuale provincia di Fermo, vi erano i comuni di: Monte S. Pietrangeli, Monterubbiano, Monte Urano, Falerone, Porto San Giorgio, Petritoli, Montottone, Santa Vittoria in Matenano).

Questo il quadro. Senza contare che dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943,con l’occupazione tedesca si procedette al rastrellamento, trasferimento e deportazione, con l’ausilio determinante dei fascisti, di tutti coloro che si trovavano nei campi ovvero all’utilizzo di alcune di quelle strutture come luogo di detenzione e supplizio di partigiani.

Eppure, quando successivamente si è analizzato il fenomeno, cioè nel comparativismo tra sistema di internamento pianificato dallo Stato fascista, tanto nella sua versione civile (curata dal Ministero dell’Interno) che in quella militare (di competenza del Regio Esercito), e totalitarismo nazista, il primo venne quasi assolto, tanto da sollevare da responsabilità politiche e morali quanti ne furono coinvolti. Tanto che non si volle fare i conti con quel passato, nell’illusorio miraggio di pacificare gli animi con il silenzio sulle sofferenze patite da uomini e donne, sul loro vissuto e sui luoghi dove furono internati. Di fronte alla tragedia, all’orrore dei lager nazisti, si è ritenuto non fondamentale l’approfondimento delle condizioni di vita nei campi di concentramento fascisti, ritenendo che la filosofia ispiratrice dell’internamento italiano fosse soltanto quella di mettere al bando gli elementi ritenuti pericolosi, sospetti o indesiderabili, trascurando che, in definitiva, internamento e concentramento furono le due facce dell’unica strategia politica di persecuzione, repressione ed eliminazione degli oppositori perseguita dal regime fascista, strategia condizionata dalla stessa politica razziale: il nemico andava individuato, isolato rispetto alla società civile e poi neutralizzato.

La stessa Anpi di Torino nel 1978, ebbe a rilevare: «la denunzia delle atrocità naziste è stata ampia e documentata, ma sui fatti non meno deprecabili attribuiti ad italiani, si è steso un velo di silenzio. Non un solo fascista è stato processato e condannato per crimini di guerra commessi contro intere popolazioni ed è davvero ipocrita l’atteggiamento di quanti hanno cercato di far credere che in ogni circostanza i militari italiani abbiano dimostrato di essere sempre “brava gente».

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero Interno, Direzione Generale di P.S., AA.GG.RR. e Personale; Archivio di Stato di Ancona, Fondo Questura; Archivio di Stato di Ascoli Piceno, Fondo Questura; Archivio di Stato di Fermo, Fondo Famiglia Vecchiotti; Archivio di Stato di Macerata, Fondo Questura; Archivio di Stato di Pesaro; C.S. Capogreco, I campi del Duce – L’internamento civile nell’Italia Fascista (1940-1943), Einaudi, Torino 2004; G. Morgese, D. Duca, Una regione e i suoi “campi”. Tra concentramento, internamento, liberazione, deportazione e supplizio (1940-1944), Ikona, Venezia 2014.